Dopo Telese, anche Facci lascia il Giornale della famiglia Berlusconi.
Questo il suo articolo su Libero
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Il mio terrore è che dietro la burbanzosa sicumera di certa destra governativa – dietro la neo ostentazione di uno schematismo destra/sinistra che si è tornati a tagliare con l’accetta, in questo Paese – si celi una progressiva involuzione di tutta la destra italiana. La mia paura, cioè, è che il famoso complesso delle catacombe missine, poi trasfigurate nella nuova e moderna destra di Fiuggi, si stia ri-trasformando in una becera rivendicazione di pulsioni datate e che non hanno niente a che vedere col progetto che il Pdl si era dato da principio. Temo, per dirla malissimo, che una larga parte del Pdl si stia trasformando in pratica nella Destra di Storace: senza che nessuno, tantomeno gli elettori, gli abbia mai chiesto di farlo.
Aggiungo che la frequente militanza ex missina o ciellina di molto personale giornalistico di centrodestra, temo ancora, rischia di avvitarsi in una corsa a inseguimento del lato estremista della consueta «gente»: quella di cui ciascuno, ovviamente, si sente interprete genuino e infallibile.
A chi ritenesse che sto esagerando – com’è possibilissimo – risponderei che in questo centrodestra c’è comunque un clima nervoso, palesemente corroborato dall’ebbrezza di un potere rimasto notoriamente senza avversari. Così gli avversari si fabbricano in casa. Sembrano quasi, certe declarazioni ostentate, come pervase da un afflato liberatorio: e Gianfranco Fini, o meglio il caso Fini, su questo sfondo è divenuto il reagente di tutte le contraddizioni, lo sfiatatoio di apnee che forse duravano da troppo tempo, forse addirittura dal 1994. Perdonate se non mi curo dei presunti retroscena da analisti malati di politica, cioè le corse per il Quirinale o le improbabili successioni a Berlusconi: io mi limito a registrare un paio di cose. Una è questa: non gliene frega più niente a nessuno di atteggiarsi a conservatore illuminato ed europeo, non importa più a nessuno che certe asserzioni di Fini, nella destra di Cameron e Sarkozy, o nei cristiano-democratici della Merkel o dello spagnolo Rajoy, sarebbero considerate addirittura banali. Altro che «compagno Fini». Non importa a nessuno, neppure, di voler incarnare il sogno moderno dei Leo Longanesi, del Mondo di Pannunzio, di Montanelli, della famosa destra risorgimentale e libertaria e balle varie: macché, c’è piuttosto da imitare il lato peraltro inimitabile e sanguigno della Lega, c’è da inventarsi «l’Italia delle piccole comunità e delle periferie urbane» che l’ex socialista Maurizio Sacconi, in un’intervista al Corriere della Sera, ha descritto come se al governo ci fosse ancora Amintore Fanfani; c’è da pensare alle regionali, c’è da bollare come «radicale» chi non lo è stato mai, da laicista di chi è laico e basta; e c’è in generale, e soprattutto, una classe politica che è stata eletta con liste blindate, che spesso non ha neppure mai visto un collegio elettorale in vita propria – al limite qualche patinata cena elettorale – ma che adesso ti parla della piazza anche se ha frequentato solo quella di Ballarò. Ci sono anche i sondaggi, come no: nel caso di certe generiche affermazioni di Fini, però, non valgono neanche quelli, anzi, non vengono menzionati. Il 70 per cento degli elettori di centrodestra (fonte: Crespi Ricerche) è contro il testamento biologico che il governo sta cucinando, ma guai a dirlo; il 51 per cento degli elettori del Pdl è favorevole a un riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, ma è roba da froci, roba da sinistra o, peggio ancora, da destra europea. C’è poi una faccenda che mette in presidente della Camera in una posizione oggettivamente eccentrica – ne convengo pienamente – ed è quella sul voto agli immigrati, posizione che oltretutto è la stessa di Santa Romana Chiesa: e però guardate la disparità di trattamento.
Lo dicessero alla Chiesa, «rientra nei ranghi».
E’ vero, la sinistra applaude Gianfranco Fini: e allora? Applaudirebbero anche un carciofo, se fosse alternativo a Berlusconi. E’ solare che mirano a fomentare divisioni, ci stanno pure riuscendo. Ma non dite che le idee di Fini siano uguali a quelle di un Franceschini, e questo sia perché sono diverse e basta e sia perché, spesso, non sono neppure idee, sono solo uscite genericissime e dettate dall’ecumenismo che il suo ruolo richiede o almeno permette: uscite che ogni volta, però, sono sottoposte a plurimi processi alle intenzioni.
Davvero, io Fini neppure lo conosco e della sua ascesa politica m’importa relativamente. Certe sue uscite forcaiole non gliele perdonerò mai, per quanto possa interessarvi. Però so, e ho visto, che ha fatto un percorso mica da ridere, ha pagato prezzi salati e senz’altro discutibili – certi suoi bagni penitenziali li ho trovati, quelli sì, cattocomunisti – e comunque ha elaborato e sofferto lo scioglimento di un partito storico per ben due volte.
Ha fatto bene? Ha fatto male? Chissà. A oggi sappiamo solo che tutto questo è servito per ritrovarsi stampate nero su bianco, un bel mattino, le ciniche espettorazioni giornalistiche di chi gli ha intimato di punto in bianco: «Rientra nei ranghi, sei ridicolo».
I ranghi.
A pensarla come Gianfranco Fini sono in milioni, nel centrodestra, e in milioni fisiologicamente non la pensano come lui: volete smembrare gli uni dagli altri, ciascuno nel suo preciso rango? Non è difficile: basterebbe tornare alla Repubblica multipartitica, basterebbe non mettersi in testa fondare il più grande partito della storia d’Italia come però, ecco, è stato fatto: un crogiolo composito, complesso, ridondante, soprattutto molto più e ambizioso dei ranghi da caserma prefigurati da qualche bollito con in mano il Winchester. La terza parola che compone il nome del partito – il Pdl – forse andrebbe riletta e riletta sino a stamparsela nel cranio una volta per tutte.
Mica i ranghi.
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